Franco Quadri su Raffaello Baldini

Ravenna, 3 maggio 2003. Prolusione di Franco Quadri in occasione del conferimento della cittadinanza onoraria a Raffaello Baldini.

 

(…) Sono stato particolarmente lieto e orgoglioso di questa chiamata, pur riconoscendo l’inadeguatezza delle mie parole, perché prima del teatrante e anche del poeta io avevo conosciuto nella sua quotidianità l’uomo Baldini che non è da meno dell’artista, per quanto intrattenessi con lui un rapporto per lo più telefonico quando lui esercitava a Panorama - intendiamoci il vecchio Panorama - il ruolo di curatore delle rubriche di critica e io ero titolare di quella di teatro. Settimanalmente sceglievamo insieme gli spettacoli da recensire, io gli mandavo i miei pezzi e lui li titolava, spesso chiedendomi consiglio, e ne sorvegliava l’ortografia, apportando anche, con la discrezione che gli è propria, i tagli meritabili, non mancando mai di consultarmi, senza una sola discussione e con una civiltà affabile di cui ahimé i giornali hanno perduto ormai anche la memoria.

E appunto considerando i tempi in cui viviamo non mi sembra strano che questa persona così delicata e comunicativa abbia dato alla sua prima raccolta in versi romagnoli, pubblicata quasi clandestinamente nel 1976, il titolo É solitèri che, pur alludendo a un gioco di carte, sottolinea in chi ci si appassiona un carattere appartato, e a un’altra successiva, premiata a Viareggio, quello di Furistir dove è il soggetto che dice “io” a sentirsi forestiero rispetto alla società in cui vive.

In effetti la riservatezza un po’ timida e un po’ ribelle dell’autore è una caratteristica che contraddistingue la galleria dei personaggi che popolano specialmente i suoi primi libri di poesie, in genere esseri un po’ orsi, criticoni nei riguardi di altri con cui non vogliono familiarizzare, più per il gusto di coltivarsi in pace le proprie manie che per una vera superbia. E se insisto a ritrovarci dei margini autobiografici non si può escludere che la tipologia descritta trovi corrispondenze nel santarcangiolese medio, e non soltanto. Anche la scelta del dialetto si accorda del resto a questa immagine perché se è teoricamente vero, come argomenta l’autore, che quando si scrive in dialetto si ha la sensazione che ti capiscano tutti, poi lui stesso aggiunge, cioè quelli del tuo paese. Quindi la scelta che risponde al desiderio della maggior libertà possibile nell’esprimersi è anche in qualche modo aristocratica o escludente come lo sono quei caratteri rusteghi, tanto più che la lingua in questione viene parlata in una piccola area paesana. (…)

 

Eppure, quando è Baldini a leggere se stesso, tutto è limpido e i significati escono direttamente dalle risonanze, dagli appoggi, dalle pause del non attore emozionato e timoroso di non farsi comprendere. Ma anche dalla semplice lettura delle poesie, un foresto, una volta superato il primo effetto di ermetismo, cade presto vittima dell’incanto di questo accumulo di parolette così brevi che sembrano rincorrersi e rimbalzano nei dittonghi tanto da suscitare nei critici i commenti inversi di chi riscontra l’aspetto ispido, barbarico del dialetto e di chi pone invece l’accento sulla semplicità diretta di parole che si sciolgono in bocca. Certo il dialetto accentua a volte l’immediatezza degli sfoghi e anche il senso di un parlare a vuoto per formule meccaniche che sollecitano l’ironia, ma fa anche specie che lo coltivino più i poeti mentre tendono a lasciarlo in archivio le nuove generazioni portate piuttosto verso altri sleng. Eppure non se ne può contestare la plasticità atta a imporsi in un teatro come il nostro dove tra l’altro il problema della lingua esiste, come per quella famosa mancanza di un italiano “parlato meglio” di cui dissertava Pasolini, denunciando la convenzionalità di quel linguaggio imitato dagli originali stranieri o da princìpi teorici o da princìpi tonici convenzionali di timbro radiofonico. In effetti il plurilinguismo trionfa sulla scena dopo la scomparsa dei grandi eredi delle nostre lingue teatrali, dal napoletano post eduardiano di Moscato e Ruccello, spesso alla ricerca delle origini, al palermitano asciugato fino a una secchezza surreale di Scaldati, dal lombardesco di Testori che mischia un patois arcaico alle influenze straniere e ai neologismi verso la pura sonorità, alla contaminazione dei dialetti ripresi dal Tarantino dagli immigrati del sud, il teatro italiano ha tratto dal ricorso ai dialetti nuova linfa e un autentico rilancio di una nuova drammaturgia.

 

Se la poesia di Raffaello Baldini apre sempre di più i suoi orizzonti col trascorrere degli anni, da La nàiva a Ad nòta, lasciando le situazioni maniacali per incentrarsi su personaggi più comuni, mentre coglie con personale originalità momenti particolari della vita con una crescente attenzione ad abbracciare i grandi temi, il suo teatro che debutta con Zitti tutti nel ’93, rimane fedele al carattere beckettiano addebitato da diversi critici soprattutto alle prime raccolte poetiche a cui avrebbero fatto seguito significativi richiami a Kafka e Cechov. Il protagonista è un bislacco che si protegge dalla vita chiuso in una stanza a occuparsi delle proprie rendite, protetto dalla banalità dei luoghi comuni, dal riversarsi addosso come onde condotte da uno stile di prensili associazioni, le sue memorie dal sottosuolo.

(…) Il dialetto resta un’arma affascinante tutt’altro che sminuente per la grande poesia e per il teatro di Raffaello Baldini che dopo essersi inventato una lingua in bella compagnia, ma personalizzando sempre di più la propria ricerca, dopo aver trovato lettori, pubblico e molti premi, abbiamo bisogno di risentire in nuove opere il ritmo segreto e rivelatore con una continuità certamente non ignota ai suoi cassetti.

 

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