Pan Ubu

01/04/2020

Pan Ubu

[lockdown, aprile 2020]

Quelli che stiamo vivendo sono stati giorni crudeli, come dice il poeta.

Il desiderio di accompagnare il silenzio si alterna all’impulso a prendere parola. Tra i due abita la speranza che questa frenata forzata possa essere l’occasione per immaginare un cambiamento futuro.

Come Associazione ci siamo chiesti se possa esserci, e quale, un arnese per sbrecciare, quanto più collettivamente, il muro di difficoltà, in primis quelle economiche, a cui artist*, regist*, performer, tecnic*, costumist*, critic*, scenograf*, attori e attrici, curatori e curatrici versano a causa delle cancellazioni di stagioni, laboratori, progetti, spettacoli, concerti, imposte dalle misure contro il COVID-19.

Abbiamo sentito cioè la spinta a raccogliere alcuni pensieri, riflessioni, dati – quanto più asciutti e puntuali possibili – sulle condizioni di vita materiale in cui versiamo, i cui esiti futuri sono solo parzialmente immaginabili.

Abbiamo invitato una figura per ogni categoria rappresentata dal Premio Ubu a scrivere una pagina di note schematiche o pensieri più ragionati in cui ognuno possa farsi porta-voce dei propri bisogni e delle urgenze concrete di altri. Sperando che sia la base per un’azione comune.

Contributi

Ci è stato chiesto di non agire.
Trasformare il movimento in immobilità.
Rinunciare al nomadismo della nostra specie accogliendo l’attesa.
La poesia non ha spazio in questo tempo, il nostro stare non è romantico, il presente è spietato.
C’è mai stato un momento come questo in cui sembra non esistere modo per esser dissidenti?
Grazie alla finestra ci ricordiamo del mondo mentre, con i gomiti posati al davanzale, continuiamo a fluttuare in un insostenibile nulla.
Se spariscono i corpi, sparisce tutto
“È stato così difficile arrivare fin qui, ed ora posso essere solo spettatrice del crollo.  Non avrò mai più 35 anni”
Per ogni tempo esistono pensieri fertili e pensieri sterili. Questo virgolettato, che ha tutta l’aria di essere sterile come il deserto, è stato un mantra per giorni e nella ripetizione ha generato un brivido di eccitazione e terrore quando si è trasformato in: “Non ho mai vissuto un presente tanto ingombrante”
Fabio, dal divano, dice “Gramsci la rivoluzione l’ha fatta dalla prigione”.
Io esco sul balcone, non canto, urlo:
Non salviamo niente! Lasciamo che tutto si distrugga!
Per anni ci siamo chiest_ come lottare per inserirci in un sistema impenetrabile, in un’irrazionale gerarchia a cui non si poteva accedere senza chiedere permesso, senza appellarsi a crepe o spiragli.
Poi, un giorno, il mondo si è fermato. I corpi, tutti, sono stati silenziati e in questo silenzio il sistema è collassato.
Da quel giorno siamo tutt_ esclus_ dal mondo e in questa emarginazione crudele, improvvisamente, i divergenti brillano. Non parlo di democrazia del Virus ma di una penombra in cui, per chi è nat_ e cresciut_ oltre i confini è più facile orientarsi rispetto a chi ha sempre abitato la luce.
Per la prima volta guadagniamo tempo e terreno, veniamo interpellat_ senza dover urlare.
Ci sarà un tempo in cui tutto verrà rinegoziato ed è nostro dovere arrivarci con occhi, schiene, mani allenate, pensieri veloci, proposte luminose. Dobbiamo essere noi le scintille da cui ripartire.
Mentre cerchiamo una strategia per riaprire i teatri ricordiamoci che dal modo in cui rimetteremo piede nei nostri spazi dipenderà tutto. È questo il tempo in cui possiamo creare l’alternativa che abbiamo sempre preteso. E perché le sue basi siano solide bisogna prima raccogliersi e immaginarla.
Noi, che non soffriamo di nostalgia per il tempo andato, possiamo indirizzare le energie dal restauro di vecchie cattedrali alla creazione di nuove architetture.
Non prendete questo mio testo come una catena di intime utopie, di pensieri confortanti.
La parola poetica è parola politica, crederla astratta di questi tempi sarebbe sciocco.
Esistono già silenziosi gruppi carbonari in cui noi, corpi divergenti, dissidenti, marginalizzati, ci stiamo allenando.
“Se spariscono i corpi, sparisce tutto” dicevamo.
Ma noi siamo pront_ Non siamo sparit_. Non siamo isolat_.
Anche quando non vist_ siamo sempre stat_ qui.

Premessa utile: di questi tempi ci viene chiesto di parlare, ma non sappiamo esattamente cosa dire. Buttiamo giù qualcosa, che gli eventi poi superano. Allora riscriviamo. E ristracciamo. Però poi sembra brutto non rispondere. Qualcuno vuole sapere che pensi. Allora diamo per buona la terza, la quarta stesura. Ma non dobbiamo rileggerla troppe volte, sennò siamo tentati di non spedirla. Lo scritto che segue non fa eccezione.

Appunti di fine Olocene

Passerà. Qualcuno si avvicinerà alle estremità, dopo una vita di agi, di finte. Di quanto si avvicinerà e a quale estremo? Non sappiamo. Il cervello è però abbastanza neuroplastico. Cambieranno i rapporti, si dice. Probabile. Ho avuto la mia educazione sessuale ai tempi dell’AIDS. La cosa, in effetti, ha influito. Ma non dovremmo credere troppo alle lamentele, prima di tutto alle nostre (anche se ci abbiamo costruito su uno stile).
La pandemia è l’ouverture del collasso (o per chi da trent’anni si sgola: il primo tempo), quindi cosa chiediamo agli umani? Congiunti o meno, politici, artisti, che siano? Probabilmente non c’è niente da chiedere. Solo adeguarsi in tempo a quel che viene. E farlo insieme, il più possibile. Per ora, almeno: condividere le informazioni a riguardo. Stiamo uscendo dall’Olocene, sarà dura.
Non mi stupisco di non contare un bel niente. Chi è libero non conta niente, se si può lo si schiaccia, se non si può lo si ignora, lo si lascia morire. Spero che almeno cali un po’ il numero di cortigiani.
Potremmo però fare qualcosa di politico. Bruno Latour, educatamente, lo propone (ma lui li chiama cahier des doleances, che non mi piace, anche se nel 1789 han funzionato): una specie di costituente bottom-up. Contribuirò.
È più probabile però, e pertinente alla sfera animale, che serva fare qualcosa off-line, nel nostro piccolo, nella sfera del lavoro, della pratica, quando potremo riaprire le porte. Che cosa?
Quello che sta funzionando, per ora, è una certa pazienza, unita alla qualità weiliana per eccellenza: l’attenzione.
La sanità che ha tenuto è territoriale, pubblica ma non ospedaliera (curare a casa, fare controlli, essere agili, veloci alla risposta). Strategia minoritaria ma efficace. Il sogno di un servizio pubblico non burocratico. Mi chiedo: come sarebbe l’equivalente, nel mio campo? Come sarebbe una cultura, pubblica, del genere?
Chissà. Ne tento a spanne una genealogia, naturalmente del tutto idealizzata.
A parte proprio la Pianura Padana, dove ancora si fronteggiano ad armi impari, nel resto d’Italia né il Capitale né il Comunismo hanno attecchito, anche solo per motivi orografici. Quando la strada comincia a salire, tutto cambia. Funzionerebbe invece meglio l’anarchismo: quello comunitario, mutualistico, di Kropotkin, di Ward, di Gary Snyder. E il cristianesimo paganeggiante degli Appennini. Senza sbancare montagne, si potrebbe vivere in scala ragionevole, producendo, senza zonizzazioni e grandi imprese, con un complesso più bilanciato di tutto (che è il contrario della paranoia dei nimby: ci sarebbero campi ma anche fabbriche, discariche, officine, non è un eden ma una mitigazione controllata, concertata, convinta, della pressione antropica sul mondo…).
In un modello sociale del genere, in nessun modo castale, la cultura, staccata dal resto, non può vivere. Né il resto senza, però. Naturalmente l’artista sarebbe in guerra con il resto anche qui. Ma le dinamiche sarebbero più rozze, più chiare. E l’abitudine alla prossimità più disponibile, più dell’ipocrita anonimato borghese, a tollerare, se non a digerire, le minoranze. Se invece saremo costretti alle sagre, come nella metropoli ai bandi e al precariato, o alle prediche di preti pedanti, come nella metropoli ai ghetti, allora possiamo sempre isolarci, creare e stare in pace. Produrre bene per poi esportarlo. Per poter dire quello che penso mi farò un orto (anche solo in effigie), così nessuno potrà ricattarmi. È l’ipotesi dei saggi taoisti, che i Re venivano umilmente a interrogare. È un’immagine provinciale, antiquata, mi rendo conto. Ma chissà non ritorni moderna. La maggioranza, in sé, è un corpo crudele, andrebbe sempre smembrato. Quindi propongo smembramenti programmati, società complesse però in forma bonsai, insomma il meglio del Made in Italy da sempre, probabilmente.
Anche perché, in ogni caso, per sfregamento col Capitale ci si corrompe: la cosiddetta cultura si sfigura, e il massimo che riusciamo a fare, per un po’, è giusto resistere.
Lo si capisce bene in questi giorni, spariti i turisti americani, cinesi. Tutti a dire: ah, cazzo, la cultura allora non è solo turismo, cazzo, sì, è produzione, deve tornare di nuovo produzione! Con scuole, monumenti, alberghi chiusi, anche le menti meno sottili lo capiscono. Produrre frutta e verdura, produrre mascherine, produrre ventilatori polmonari, produrre spettacoli. Come nel sussidiario elementare: primario, secondario, terziario. Invece per vent’anni, a sinistra, tutti a sognare la Disneyland della Cultura (Italia parco tematico a cielo aperto). E ora, finalmente, di nuovo: produrre. L’economia di guerra di queste settimane mostra che abbiamo ancora un tessuto manufatturiero.
Ne abbiamo uno anche artistico, culturale.
Ma adesso si dovrebbe produrre (e coltivare, e commerciare) in modo diverso.
Primo: a partire dai beni essenziali (il momento ci fa capire quali sono: sanità, istruzione, cultura e agricoltura… ci ricorderemo?). Secondo: a filiera corta e carbon free. Terzo: senza assembramenti di capitale, cioè difendendo la piccola impresa (fuck the Trust!).
Per me, sarebbero tutte garanzie di libertà. E quindi, in particolare per la cultura, di qualità.
Che bello se tutto il teatro andasse all’aperto (direttori artistici, iniziate i sopralluoghi!). Il teatro fatto all’aperto è un’altra cosa, lo sappiamo, dal teatro in interno. Cambia la voce, il corpo, cambia tutto. Col climate change (anzi, pardon: collapse), in Italia si può ormai stare fuori fino a Natale. (Invece sogniamo inverni post-brechtiani, di teatri con metà posti, di cloroformio, di congiunti in palchetto…).
Che bello se la scuola riprendesse, anche lei, solo all’aperto (maestri, tirate fuori l’erbario!)… Se le maestre, lettrici di Benjamin, portassero per le città le scolaresche, in una stagione di educazione incidentale, di faccia a faccia con la realtà, via dalle aule. (Invece si pensa a metà tempo in classe, mascherati, e metà in streaming…).
Che bello se approfittando della crisi del turismo, i sindaci facessero un calmiere degli affitti, e le città ritornassero reali (ultimamente anche a Bologna si trova casa).
Insomma il mio è un augurio illichiano, anche ora, anzi ora in particolare, ora che forse fatichiamo a discernere, oscillando tra nichilismo e rivoluzione, idealizzazione e rifiuto, teorie del complotto e abbandono alla divina virologia: 1. Descolarizzare ma educare (ora si è obbligati, proviamoci)! 2. Demedicalizzare ma curare (finché e dove si può e in buona parte si può)! 3. E se cultura è animazione turistica, volontariato, entertainment in streaming (o tartufesco paracomunismo in extremis dei Grandi Capi che sentono aria di ghigliottina) allora: deculturalizzare!

Il poeta dice che “anche il silenzio è musica”.
È vero. Ma questo vale quando, tra una nota e l’altra, un segno grafico nello spartito indica una pausa che rappresenta un preciso momento di silenzio.
Oggi, a causa del Coronavirus, le strade e le piazze sono “piene” di “vuoto”. L’alternanza è perfetta, seppure i due aggettivi indichino due estremi opposti.
L’infinito è come l’universo, che di per sé non ha limiti. Un tempo, quando si guardava l’orizzonte, si tracciava il limite estremo del visibile. Oltre c’era l’invisibile, raggiungibile solo con l’immaginazione e tuttavia inimmaginabile. L’infinito è qualcosa che sta oltre l’orizzonte, oltrepassarlo significherebbe superarsi, andare verso l’infinito di noi stessi, oltre noi stessi.
Occorrerebbe recuperare la parola “utopia”, immaginare che ci possa essere altro, col rischio di scoprire realmente il vuoto o forse anche il nulla.
Omero, con i suoi racconti, ha toccato i nostri sentimenti non solo con il significato della parola ma anche con il significante, narrandoci storie e leggende che conservano tuttora una luce vivida e sono ancora in grado di svelarci l’enigma del nostro domani. Iliade e Odissea: l’uno è il racconto della guerra di Troia, l’altro è il ritorno di Ulisse a Itaca. Il primo descrive l’infuriare di duelli e battaglie, il secondo il ristabilimento dell’ordine. Entrambi tratteggiano, con incredibile precisione, la condizione umana: la guerra e il viaggio. Non sono argomenti attualissimi?
Guardare e vedere. Ascoltare e udire.
Questo dobbiamo continuare a fare: quando non riusciamo a osservare e ascoltare, aiutiamoci scrivendo. La scrittura è sempre stata nostra amica e alleata.
Anna Frank, dalla sua forzata segregazione, ci ha fatto capire che da uno spiraglio possiamo intravedere la bellezza. Ciascuno di noi può soffrire di solitudine anche stando in compagnia o essere solo ma sentirsi in compagnia.
Il nuovo nemico è invisibile e si chiama Coronavirus, ad oggi non conosciamo nessuna arma per combatterlo se non quella del distanziamento sociale.
Credo che sia arrivato il tempo di riflettere su quanto abbiamo costruito dal secondo dopoguerra in poi e ricominciare a valorizzare tecniche e saperi del passato.
Gli artisti, i poeti di oggi, non devono più pensare ai grandi eventi, ai tir carichi di mastodontiche scenografie. Chi vive ed opera nel teatro deve convincersi che l’arte appartiene alla Poesia e la Poesia è un atto d’amore che, come tale, si dà senza pretendere nulla in cambio.
La condizione dell’attore è analoga a quella di un pescatore o di un contadino: finché ci sarà il mare avremo il pesce, finché ci sarà la terra avremo i suoi frutti.
Questa consapevolezza ci impone di rivedere i nostri stili di vita, i nostri criteri di giudizio, i valori su cui fondiamo le nostre scelte. Tutto è connesso all’amore e allo sguardo su di noi e sugli altri.
A fermare il Teatro, la Musica, le Arti e la catena infinita di relazioni professionali e umane ad essi connesse, non saranno la cancellazione di stagioni, di festival, di eventi speciali, di spettacoli. Paradossalmente, questo cambiamento potrebbe diventare un’opportunità per comprendere ciò per cui vale la pena fare teatro e per condurci ad una profonda revisione dei nostri modelli culturali, per una crescita di tutto il settore.
Gli artisti continueranno in qualche modo ad esprimersi e, finalmente, quando potranno ripartire, godranno della bellezza del teatro essenziale. Ognuno, con la propria forma espressiva, darà il meglio di sé e ancora una volta sarà fonte di ispirazione per sé e per chi ha voglia di seguirlo.
Desidero concludere queste mie sparse riflessioni con il finale di una poesia di Eugenio Montale, da Ossi di seppia: Noi non sappiamo quale sortiremo, vv. 24-28).

… E un giorno queste parole senza rumore
che teco educammo nutrite
di stanchezze e di silenzi,
parranno a un fraterno cuore
sapide di sale greco.

Grazie e buona vita a tutti.

Avenir medium. Noto d’improvviso d’aver sempre scritto i progetti di lacasadargilla con questo carattere; un gesto che credevo propiziatorio, per allungare timidamente un dito nel futuro e che, in questa quarantena di avvenire incerto, dice molto più di quello che mi piacerebbe della nostra psiche e del posto – medio – che ci sentiamo in diritto d’occupare nel mondo.
Farò delle considerazioni di mero buon senso, perché non credo si possa, né si debba andare oltre. E per ‘oltre’ intendo avere la tentazione di compensare un buco che si è oggettivamente mostrato, non prodotto. Prima di tutto nell’intero welfare e per ogni cittadino, oltre che per le singole categorie cui apparteniamo. E nelle Istituzioni che non hanno saputo ragionare a fondo su cause, natura e bisogni prima di questo Intervallo – per dirlo alla Ballard.
Riguardo poi noi tutti lavoratori dello spettacolo, in questo nostro avvenire che era già –  a dir tanto – medio, nell’orizzonte psichico creativo e politico della vita concreta, il COVID19 ha innescato una conseguenza limpida e immediata: togliere ogni velo d’ambiguità su tutto il mondo della cultura, mostrando ancora una volta che il paese Italia non lo riconosce giuridicamente e sottolineo giuridicamente, a monte, come un lavoro, essenziale e quindi inevitabilmente regolato e protetto.
Quindi.
Concretamente.
Ci sono due livelli, che dovrebbero essere tra loro indipendenti e pure reciprocamente ‘consapevoli’ nell’azione di governo: un piano speciale d’investimento immediato e svincolato da parametri numerici, proprio in virtù dello stato d’emergenza – da erogare a tutti i Teatri Nazionali, Stabili e Tric e a tutte le realtà non finanziate, indipendenti e virtuose, ai Festival e alle Compagnie. E accanto, e ripeto accanto, – altrimenti parliamo di una sola coperta sdrucita – quella revisione radicale e non occasionale dei paramenti e dei diritti dell’intero mondo dei lavoratori della cultura che a oggi è ancora non ‘misurato’ in quanto tale, quindi potenzialmente non retribuibile se non per gentile concessione di qualcuno.
Idealmente.
Mi piacerebbe veder ‘consegnato’ quest’anno d’Intervallo al proprio legittimo tempo, nell’alveo di un finanziamento speciale: per i Teatri, i Festival, le compagnie e gli artisti dando loro il diritto e il dovere di sperimentare, di riprendere il passo. il senso e una cura delle proprie pratiche, ragionando su quello che è davvero ‘mutato’, dentro e intorno. E non dovere, disperatamente, usurando vocazioni e talenti, ricorrere al piano A, B, C, D, come scriveva Milo Rau – per restare aperti, per avere i fondi promessi, per realizzare i propri progetti, per limitarsi insomma a esistere –, coprendo di fatto un vuoto programmatico e facendolo in una solitudine istituzionale assoluta. Non costretti a produrre consumando energia creativa in cosucce temporanee, in meno tempo e con mezzi ancora più esigui. Solo così quest’Intervallo potrebbe essere un vero tempo di semina che riveda alla radice il modo di fare spettacolo e che riesca a immaginare concretamente altri dispositivi ‘al presente’ per poi, se avranno trovato una propria ragion d’essere, darli in lascito alle tante pratiche future.
Di nuovo. Concretamente. Ma in forma di domanda.
Si dice che la data annunciata per la ‘riapertura dei teatri’ sia il 1° gennaio 2021. Bene. L’annuncio ancora lascia fuori il come. Come se il teatro si producesse d’improvviso nelle case di ognuno, limitandosi a essere un oggetto pronto all’uso e non invece ciò che è: pratica condivisa di corpi, immaginazioni e maestranze, un processo di ricerca che ha bisogno di tempo, spazi, e condizioni precise.
Cosa andrà in scena dunque il 1° gennaio se non si lavora concretamente al prima?
Cosa significa arrivare pronti – e cosa implica – alla riapertura dei teatri? Per andare dove?
Dovrebbe significare arrivare con qualcosa da offrire e da offrirsi, perché la presenza quella cosa unica, irripetibile e condivisa del teatro – possa ancora accadere.

Voglio ringraziare tutte le persone con cui ho avuto modo di parlare in questo ‘Intervallo’, gli articoli, le lettere programmatiche e le riflessioni che ho avuto modo di leggere. Il mio intervento è il frutto di questa riflessione condivisa e preziosa.

Intanto per liquidare subito una visione tutta personale, che rifletta la mia condizione specifica individuale: io sto bene, grazie, non ho nessuno statement da proporre.
Per il resto:
impensabile passare mesi come questi nell’ attesa di un ritorno alla normalità. Se questo ‘frattempo’ ‘ non ispira il cambiamento, allora è equiparabile alle ferie, ora d’aria inclusa.
Il cambiamento riguarda in primis il fatto che il ‘frattempo’ poco ha a che vedere con l’assenza pubblica della scena. Il frattempo è l’essenza della scena e deve essere sostenuto. I festival, i teatri, le istituzioni, le compagnie devono sperimentare insieme l’emersione di una nuova temporalità e di un nuovo atteggiamento nei confronti della materia performativa, per far si che il frattempo diventi pubblico.
Per forza di cose a partire dal locale, immaginiamo di aprire tutte le strutture possibili alla ricerca, favoriamo la ricerca, che contiene in sé tutte le domande relative al momento che stiamo vivendo e quindi evolverà di conseguenza i propri protocolli particolari. Garantire questa possibilità di rimettere in atto la ricerca, di poter distribuire economie alle aggregazioni, che sono la base della ricerca teatrale, a quell’insieme di competenze disparate che fondano le compagnie (costellazione viva che si annacqua nell’attesa); aiutateci a tenere aperto, il pubblico fluisce e fruisce in modo diverso, perché sa che tutto non è concentrato nell’evento, nel programma particolare, il teatro è aperto in un tempo lungo, decidi tu quando passare, noi siamo all’opera sempre, siamo senza tournée, non prenderemo treni, saremo vigili, saremo tanti e dal vivo, solo dal vivo, costruiremo delle intensità temporanee e localizzate, sempre visitabili, e non chiedeteci una frase risolutoria sul futuro, noi viviamo nel presente e perché dovremmo continuare a deambulare solo intorno ai negozi di alimentari?
Non dovremmo avere la possibilità di entrare in un luogo diverso, certo a distanza, certo con una coperta in testa, assaporando un rischio che il teatro contiene di per sé? Non è un modo di dire.
Il frattempo presuppone una ritualità diversa e un’abitabilità senza scaffali, senza prodotto. Io penso che il confronto della collettività con questa prospettiva dal vivo possa essere un buon terreno per dare al momentaneo presente una chance di lungimiranza. Solidarietà sindacale inclusa.
E sempre dal vivo.

Ammetto che c’era fino a pochi giorni fa una certa incapacità da parte mia di pensare al teatro, senza il teatro.
Per me è stato come fosse scomparso per due mesi; nessuno a popolarlo, amici o sconosciuti da guardare in penombra, parole e musica, pensiero: semplicemente, non c’è stato.
Progettarlo, parlane, leggerne. Avrei potuto fare questo.
Ma le matite sono rimaste ben allineate sulla scrivania, i copioni alla mia sinistra, il foglio bianco di fronte.
Sono stati due mesi di vuoto, che sono durati lungamente ma anche niente. Ho disegnato certo, senza davvero mai terminare qualcosa.
Perché appunto, non c’era.
Erano palazzi senza abitanti e senza finestre; meravigliosi monumenti, memorie abbandonate alla loro polvere, senza persone, senza comunità. Non c’era.
È da questo punto che vorrei ripartire, perché questa distanza ha sottolineato dentro di me cosa rappresenta il Teatro: al netto dell’espressione artistica, fondamentalmente è urgente comunità. Dove io mi esprimo solo perché parte di essa, non altro; come tutti, dal primo all’ultimo che ne varca la soglia.
L’opposto del distanziamento sociale, che ne è la negazione: che nega la relazione fatta di artigiani e artisti, di attori, e tecnici, e di musici e danzatori, e di pubblico che ne è parte fondante: perché il teatro è fatto in larga parte di pubblico, che agisce cosi profondamente sullo spettacolo.
Distanziamento che nega il confronto: nega gli spettacoli degli altri e le prove dei nostri, nega le parole con cui portiamo avanti i progetti e li difendiamo o li uccidiamo, nega le reazioni delle persone accorse a guardarlo, nega l’applauso e nega il dissenso.
Resto perplesso e in fondo contrario all’idea che il teatro da azione scenica possa risolversi in altri mezzi, perché appunto è un medium che necessita di essere vissuto, e mi convinco ogni giorno che a questo dobbiamo opporci: alle soluzioni che non sono teatro, alla rassegnazione.
E tornare.
Dopo due mesi di assenza, ora penso a questa distanza solo come un momento in cui organizzarsi per accogliersi di nuovo. Lavorando.
Comprendendosi di nuovo in quanto comunità, aperti invece che chiusi, inclusivi. Tornare per riflettere, ricostruire, sia la dignità che si è smarrita di lavoratori, mai cosi fragili come questa volta, che il senso della produttività, negli ultimi anni moltiplicato per ragioni burocratiche a discapito a volte della ricerca, della possibilità di sbagliare e provare, del tempo lungo necessario a costruire un universo fragile quale uno spettacolo.
Tornare. Sarà lento. Ma noi, che siamo operatori dello spettacolo, credo possiamo – anzi dobbiamo – farlo adesso, prepararlo.
Tornare, per aspettare gli altri, per rammendare i nostri costumi, tornare per prepararne di nuovi per la stagione che verrà, mentre altri dipingono e costruiscono scene, e altri scrivono drammaturgie, provandole su palco; prendendoci il tempo di farlo per bene.
Tornare, perché nella solitudine delle nostre case possiamo agire solo la memoria, non altro. Tornare e fare, per tutte le stagioni che verranno, soprattutto non solo per le nostre.

NON RIESCO A GIOIRE DELLE FIERE DELL’ANDRÀ TUTTO BENE
MI IRRITANO
NON TROVO IL MUTAMENTO IN POSITIVO BATTENDO IL MESTOLO SUL BALCONE PER FAR MUSICA
NÉ INNEGGIANDO ALL’ITALIA DELLA BANDIERA
MI SI FERMA IL SORRISO PERSINO DAVANTI AI DELFINI CHE SALTANO VICINO A TRIESTE
PROPRIO IO DA SEMPRE FERITA E INCAZZATA DAGLI INUTILI RICHIAMI DEL PIANETA PER FERMARE LA CORSA STOLTA DELL’UMANO POTERE
LA SEMPRE ODIATA PRODUZIONE PER FORZA
LA FUFFA ARTISTICA DEI NUMERI SEMPRE ODIATA
RIEMPIRE I BUCHI DI ROBA BRUTTA GIUSTO PER RIEMPIRE, PER NON DIRE NIENTE SE NON “ANCHE NOI FACCIAMO EH”
DECRESCO CONVINTA, LA COMPETIZIONE MI GENERAVA ANSIA, MISURARSI CON CHI?
MA POI POCHI GIORNI E MI INCAZZO
I VALORI ASSOLUTI DEL SILENZIO, DELLA SOLITUDINE E DELLO SMART A SOSTITUZIONE FRANANO DAVANTI ALLA MANCANZA DELL’UMANO
MI INDIGNO CONTRO LA PRATICA CHE SI INSINUA: LA TUTELA DELLA SALUTE CHE SEMPRE PIÙ NON CORRISPONDE ALLA TUTELA DELLA VITA
DELL’INCONTRO, DELL’ABBRACCIO, DEL CORPO, DELLA DOMANDA
MI MANCA IL MISTERO DELL’ALTRO
MI MANCA LA POLITICA
INTESA COME DISCUSSIONE, COME LIBERTÀ E DISSENSO
IL TEATRO DUNQUE MI MANCA, L’ESPERIENZA DAL VIVO COME DISCUSSIONE, LIBERTÀ E DISSENSO.
MI MANCA DA QUANTO? DA QUANTO LA VOCE DEI POETI È RIDOTTA AL SILENZIO, PER POCHI SFIGATI ENTOMOLOGI?
PERCHÉ IL MIO MINISTRO NON SA COSA FACCIO E NON AMA CIÒ CHE FACCIO?
PERCHÉ NELLA MIA REGIONE SONO COSTRETTA A CASA DA FEBBRAIO PER PROTEGGERE I PIÙ DEBOLI DALLA MORTE E NELLE RSA SI MUORE A MUCCHI? SENZA UN ABBRACCIO. A COSA STO RINUNCIANDO? PER PROTEGGERE CHI? CHE COSA?
HO PAURA QUANDO PENSO CHE NIENTE SARÀ COME PRIMA.
LO CONTINUANO A DIRE TUTTI COME SE AVESSERO TROVATO LA FORMULA.
PRIMA MI PIACEVA UN PÒ.
MI PIACEVA IL MIO LAVORO.
NON VOGLIO VERGOGNARMENE OGGI COME UNA COSA LONTANA E INUTILE, COME DELL’ULTIMO DEI PROBLEMI CHE DOVREBBE RIGUARDARMI. È UN PECCATO IDENTIFICARSI CON CIÒ CHE SI È IMPARATO A FARE E PER CUI SI È SUDATO SANGUE? È UN PECCATO PENSARE CHE SENZA SI VIVRÀ PEGGIO, SI AMERÀ MENO?
MI MANCANO I PANINI RANCIDI DELLA BIENNALE DI VENEZIA
MI MANCANO LE PROVE, TUTTE QUELLE ORE IN TEATRO INSIEME AGLI ALTRI SPERANDO DI USCIRE CON NUOVI TESORI TROVATI E MERITARSI UN BICCHIERE DI VINO IN COMPAGNIA.
MI MANCA ADDORMENTARMI A TEATRO NELLE MARATONE DI 10 ORE, QUANDO TI CADE LA TESTA E I TUOI SOGNI SI MISCHIANO AI PENSIERI CHE GLI ATTORI HANNO PENSATO PER TE SUSSURANDOTELI ALL’ORECCHIO. E POI UN IMPROVVISO CAMBIO NELLA VOCE TI RIPORTA AL LORO SUDORE E ALLA LORO BELLEZZA.
MI MANCA LITIGARE NEL MIO PICCOLO TEATRO PERCHÉ NON C’È ABBASTANZA SPAZIO NEL FOYER.
MI MANCA INCAZZARMI PERCHÉ NON POSSO LAVORARE NEL PROGETTO DELLA VITA, PERCHÉ A UN PROVINO SONO ARRIVATA SECONDA.
PARE PIÙ FACILE COSÌ, SENTIRSI FIGHI DAL DIVANO PERCHÉ NON C’È GARA E INVECE E INVECE IO HO UN SENSO DI COLPA GIGANTE PER TUTTE LE IDEE NUOVE CHE NON MI VENGONO.
SENSO DI COLPA PER LE GIORNATE COSÌ PIENE IN CUI NON MI ANNOIO MAI.
HO DA IMPARE L’INFINITO, MA AGLI ALTRI QUESTO MIO IMPARARE COSA SERVE? COSA SERVE SE CORRO O MI FERMO?
IL TEATRO LO PENSO SEMPRE DAL VIVO. NON SO RIPENSARLO: MENO QUANTITATIVO CERTO. COME UN’ESPERIENZA PER I POCHI CHE LA SCELGONO. E ACCANTO TUTTO QUELLO CHE STIAMO IMPARANDO IN QUESTI GIORNI CHE SONO APPUNTO ACCANTO.
MENO CHIACCHIERE, MENO GIUDIZI DEGLI UNI CONTRO GLI ALTRI E PICCOLO FARE DOVE LA SOLIDARIETÀ SIA IMMAGINARE E DUNQUE LAVORARE A UN MONDO MIGLIORE.
RISUONA NELLA MIA TESTA LA FRASE LANCINANTE DI UNA SCRITTRICE DI POCHE OPERE CHE LA MORTE HA FERMATO TROPPO PRESTO. ALESSANDRA SAUGO. “ADESSO VADO VIA DAL PORNO DEI BEI CUORI”.
CERCO QUEL POSTO, CERCO QUEL VIA. CHE SIA UN LUOGO AFFOLLATO.

Il protagonista di Illusioni perdute di Balzac è un (aspirante) intellettuale di provincia che approda a Parigi. Sogna di scrivere un romanzo che faccia la storia, ma si scopre brillante giornalista e recensore di teatro.
A rileggere oggi quelle pagine, si resta impressionati nello scoprire quanto quel quadro non risenta del tempo. Lucien è travolto da una girandola di cene e brindisi in cui dilapida i pochi soldi guadagnati, notti lunghe, passioni brucianti per le attrici, discussioni infuocate nel foyer. I veri innamorati del teatro – e i critici lo sono – sanno che si tratta anche di questo: del movimento, della vita che attraversa il prima e il dopo dello spettacolo, del non dormire molto, del nutrirsi dell’incontro con l’altro.
La pandemia ci fa vivere l’opposto. Scriviamo di spettacoli lontani nel tempo, cerchiamo di studiare i fenomeni e di metterli in prospettiva storica, ragioniamo nel silenzio, nel privato e nell’immobilità – cioè nel massimo grado di distanza dal teatro. Ma questi giorni sono anche un’istantanea sulle nostre vite che faremmo bene a guardare con attenzione, anche se lo scatto è crudele, e ci ritrae come non vorremmo. Sulla propria biografia, ognuno trarrà le conclusioni che ritiene. Sulla categoria professionale, invece, varrà la pena spendere qualche parola. Quanti sono, in Italia, i critici teatrali under 60 che hanno dovuto rendere conto a qualcuno (per esempio, a un caporedattore) del proprio smettere di scrivere, e rinegoziare i contenuti dei propri articoli per non perdere lo stipendio? Credo bastino le dita di una sola mano per contarli. Gli altri hanno discusso (gratuitamente) con i sodali della propria rivista come impostare (gratuitamente) la linea editoriale, e poi si sono dedicati al lavoro che dà loro da vivere. Altri hanno semplicemente smesso di scrivere, e nessuno gliene ha chiesto conto. Da tempo ho cominciato a parlare con una certa frequenza di soldi: perché è la transazione di denaro che, per definizione, sancisce lo statuto del professionista. Ogni volta che mi sono trovata in una qualche discussione il cui incipit era “perché voi critici…”, o davanti a qualche provocazione sull’etica del conflitto di interesse, mi sono sforzata di ricordare all’interlocutore che la parola ‘critico’ non implica (quasi) più la scrittura come mestiere pagato. Il più delle volte ne sono uscite discussioni vivaci, perché gli interventi diventano immediatamente più interessanti se si è disposti a strappare il velo.
Ecco perché dobbiamo avere il coraggio di guardarla bene, l’istantanea di queste settimane. E poi proviamo a mettere la nostra foto di fianco a quella dei nostri colleghi, come in puzzle, come in uno dei tanti screenshot di web meeting che affollano le nostre chat. È tanto diversa dall’istantanea degli altri lavoratori dello spettacolo, a ben guardare? C’è chi si ostina a scrivere gratuitamente e intanto mette insieme uno stipendio in modo creativo, chi ha un contratto fisso in un’azienda ma non rinuncerebbe mai a recensire, chi sta cercando fondi e sostenibilità per fare audience development, chi è disoccupato, chi insegna all’università, chi a scuola, chi scrive qualche pezzo a pagamento e per il resto si arrangia, chi lavora in radio, chi per un teatro, chi ha un sussidio Inps.
Da questa precaria diversità occorrerà ripartire domani – quando si rimetterà in moto la vertiginosa girandola – perché dei vestiti nuovi dell’imperatore non c’è traccia, ormai lo abbiamo capito. Non dimentichiamo la brutale nudità di questi giorni, perché se esiste ancora un significato unitario della parola ‘critico’, se esiste un mestiere, si annida proprio qui.

Salve a tutti.
Mi chiamo Francesca Morello, sono un’artista, mi occupo prevalentemente di musica con lo pseudonimo di R.Y.F. (Restless Yellow Flowers), ma non solo.
Disegno anche su carta, in digitale e su pelle umana, e la mia manualità mi permette di dedicarmi ad un sacco di attività, artistiche o meno, che si possono inserire nell’infinito universo del D.I.Y. (do it yourself) e che penso sia la base della musica indipendente italiana.
Questo significa, come per tanti musicisti, fare tutto da soli, lavorando con etichette indipendenti che fanno tutto da sole e con uffici stampa – dato che non si può fare più senza – che a loro volta fanno tutto da soli.
Ma, vi chiederete, perché tutto da soli?
Perché in generale la musica indipendente non viene considerata.
E vi dico di più, è vista come un hobby. Nei giorni scorsi, ad esempio, un musicista è stato multato perché andava a recuperare degli strumenti che gli servivano per lavorare e si è sentito dire che fare il musicista non è un vero lavoro.
Questo “hobby”, che ha nel frattempo assunto tutte le dinamiche economiche e di produzione della musica mainstream, diversamente da altri campi artistici che sono comunque bistrattati nel nostro Paese, non ha alcun tipo di aiuto economico o fondo derivante da enti statali, regionali o locali che siano. Non fa parte di ciò che viene considerata Cultura.
Allora, io che amo fare quello che dovrebbe essere il mio lavoro principale, ovvero la cantante e la musicista, me ne frego (come fanno tutte le musiciste e i musicisti) e mi sbatto di brutto per trovare concerti, collaboro con la mia etichetta che è come una famiglia e lavoro con un ufficio stampa fichissimo perché fatto da persone che credono veramente nella musica e in quello che fanno e … funziona. Sì! Finalmente funziona, e sono super felice perché ho fatto un bellissimo disco che mi piace tanto e c’è tutta me stessa lì dentro; e riesco a fare tanti concerti e riesco a vivere facendo quello che amo e… arriva il corona virus.
Game over.
Ora sono a casa con la mia compagna, che è molto più brava di me e fa questo lavoro da 20 anni, ma è esattamente nella mia stessa situazione. Anzi, peggio, perché almeno io un bel po’ di concerti per promuovere il mio nuovo disco li ho fatti, lei ha lavorato un anno intero per il suo disco, ha fatto solo una manciata di date e poi si è dovuta fermare.
Mi mancano tantissimo i concerti, fatti e visti. Mi mancano tanto le persone. So di essere fortunata perché non sono a casa da sola.
Non so cosa farò nel futuro, perché nessuno ai piani alti ha ancora determinato quale sarà il futuro del mondo dello spettacolo in Italia.
Sarebbe molto bello che, visto che si deve ripartire, lo facessimo tutti insieme, coesi e collaborativi uniti dall’amore per quello che facciamo.
Sarebbe bello che Arte e Cultura fossero sostantivi inclusivi non esclusivi.
Questo è quello che vorrei.

“La piazza è vuota, sospesa, respira in attesa.
Da lontano risuona una voce profonda, ancestrale: venti marinai, venti uomini, venti anime percuotono grandi botti di legno su un carro in movimento; le botti sono vuote, rimbombano avide, in attesa del grasso di balena. L’aria si squarcia e vibra. Il ritmo scandisce il lavoro dell’equipaggio. Raggiunta la piazza il carro fende il selciato.”

Così inizia il nostro Moby Dick: Una piazza vuota che si fa teatro grazie allo sforzo di un gruppo di persone.
E così Teatro dei Venti concepisce il teatro.
Abbiamo chiuso le porte della sala e degli uffici, ma lo sforzo per convertire una piazza in teatro non si è mai fermato.
In questa complessa fase che stiamo vivendo, i nostri attori hanno dato priorità al proprio allenamento, focalizzandosi sullo studio e sulla creazione di futuri progetti. Come tutti noi, anch’essi hanno dovuto reinventare i loro spazi di lavoro, trasformando le proprie abitazioni in piccoli teatri. Contemporaneamente sostengono il lavoro organizzativo, l’ideazione. In questa fase, la compagnia, continua a lavorare in maniera assidua, concentrandosi sull’elaborazione di strategie e proposte per essere pronta per le future tappe di riapertura. Tutto questo senza dimenticare il costante contatto con la comunità costituita dai partecipanti ai percorsi formativi, dai volontari, dai collaboratori… pilastri fondamentali della nostra attività.
Il teatro dovrebbe a mio avviso mettersi in prima linea nella fase appena iniziata. Ci sono competenze e sensibilità che possono essere sfruttate e adoperate nell’accompagnamento alla nuova normalità.
La nostra sfida è far si che questa limitazione si trasformi nell’occasione per ridare al teatro una nuova vita. Un nuovo ruolo del teatro è immaginabile. Passerà del tempo prima che si possa tornare nelle sale e allora sarà il teatro, sotto questa nuova luce, a muoversi e ad agire in luoghi alternativi. Sarà il teatro ad andare verso le persone e mettersi al loro servizio, così da rendersi di nuovo utile alla società.
Per rendere possibile tutto ciò è necessario rafforzare quelle realtà artistiche impegnate da sempre in progetti di comunità fuori dai teatri, tra le persone spesso più disagiate, nelle strade, nei parchi.
Questo approccio potrebbe mettere in discussione i parametri e i preconcetti sulle tipologie di teatro e sulle categorie. Ci sarebbe invece bisogno, di sviluppare dei nuovi sistemi di produzione e circuitazione che mettano al centro la reale funzione pedagogica, celebrativa, sociale del teatro.
Da anni ci lasciamo affascinare dalle utopie. Con Moby Dick, nella fase di progettazione, abbiamo imparato “immaginare utopie”. Nella fase di realizzazione a “mettere in movimento utopie”.

Con il nostro progetto nel borgo di Gombola e la nostra presenza in Carcere stiamo lavorando per rendere possibile l’“abitare utopie”. Il doloroso momento di separazione che stiamo vivendo ha portato a mettere da parte questa ultima idea e a pensare a progetti indirizzati alla comunità ferita. In questo tempo incerto abbiamo la responsabilità di renderci utili alla società e di lavorare per ricostruire le relazioni perse.
È questo l’indirizzo che il Teatro dei Venti ha scelto d’intraprendere per affrontare questa nuova realtà.

C’è sempre una filosofia per la mancanza di coraggio.
Albert Camus, “Taccuini”

My future is static, it’s already had it, I could tuck you in and we can talk about it.
Sonic Youth, “Schizophrenia”

Facciamo una cosa: rompetevi le ossa e quello che resta in piedi lo lascio vivo… su, datevi da fare.
Terence Hill, “Continuavano a chiamarlo Trinità”

Come tutti sono bombardato da pensieri, riflessioni, ipotesi sul “DOPO”. Ne ho pensate, lette, ascoltate di tutti i colori in questi due mesi. Trovo difficile in un momento del genere dare un contributo lucido, concreto su quello che sarà, su quello che ci aspetta, sul se/come/quando potremo ricominciare. Al mattino penso che questo fermo possa rappresentare un’opportunità per disegnare un futuro diverso, che con un po’ di coraggio sapremo cogliere l’occasione che abbiamo davanti, quella che forse molti di noi aspettano da sempre: rifondare il sistema.  Alla sera ho pensieri neri: non reggeremo la botta, pian piano torneremo nei soliti schemi, la lotta per la sopravvivenza ci renderà più cinici, incattiviti, i forti saranno più forti, i deboli più deboli. “Non si pensa nello stesso modo su una stessa cosa la mattina e la sera” scriveva Camus. “Ma dov’è il vero, nel pensiero della notte o nello spirito del mezzogiorno? Due risposte, due razze di uomini”. Allora vi scrivo nel pomeriggio. Penso prima di tutto alla sopravvivenza, alla lotta per la sopravvivenza, all’istinto di sopravvivenza. L’istinto di sopravvivenza è la prima qualità che un curatore deve possedere se opera a Sud. L’istinto di sopravvivenza è una qualità che ho sviluppato ben prima della pandemia. Mi guadagno da vivere curando l’attività di una compagnia indipendente e di un festival. Curare, qui, per me, vuol dire innanzitutto garantire una sopravvivenza. Dunque penso: sul fronte nazionale ho avuto in queste settimane tanti confronti con colleghi più illustri, preparati e capaci di me e sono certo che sapranno dialogare adeguatamente con le istituzioni, si troverà intanto una strada per evitare il disastro, subito dopo lavoreremo alla ricostruzione, forse ne usciremo con le ossa rotte, forse limiteremo i danni. Ma qui, dove vivo e lavoro? La pandemia sarà la definitiva frattura che ci allontanerà dal resto del Paese? Qui a gennaio si è votato, abbiamo una nuova classe, una nuova stirpe di politici e amministratori al potere. Sarà l’ennesimo manipolo di entusiasti pronti a rilanciare l’immagine della Calabria? #La nostraterra, #ilpostopiùbellodelmondo, #siamosedutisuunaminieradoroeneanchelosappiamo. Qui, probabilmente, ancora una volta, mi toccherà ricominciare daccapo, armarmi di santa pazienza, spiegare, mediare, litigare, soccombere, incazzarmi, rialzarmi, ricominciare, tornare a respirare. Questo è prima di tutto “curare”. Almeno per ora, finché non arriverò a un vaccino. Ecco quello che penso in questi giorni, immaginando le condizioni di vita materiale nel futuro prossimo. Sono pensieri bassi, terra-terra, ma bisogna pur farli.

9 movements that make home a theatre: Stefan Kaegi and Sounddesigner Niki Neecke have created an audiotour for the place, where we spend most of our time these days: Home. Put on your headphones and listen to it here with a mobile device.

Noi abbiamo deciso di rimetterci a lavorare. Dopo quasi tre mesi di silenzio e stasi, ci è venuta voglia di agire sulla condizione presente e vedere cosa riusciamo a fare.
Perciò ve lo diciamo subito: il primo che prende in mano un megafono e urla cosa deve essere o non essere il teatro è anche il primo che smetteremo di ascoltare all’istante.
Per noi, che tutti facciano quello che possono e che tutto esploda in direzioni non prevedibili. Tanto le cose come stavano prima mica andavano bene, no?! “Che tutto continui così è la catastrofe”, ce l’ha detto Walter Benjamin durante i primi giorni di quarantena: lui è così, sempre un po’ drastico, a volte esagera, poi nelle videochiamate non è facile capirsi bene, viene a mancare gran parte della comunicazione non verbale ma insomma il senso era quello, si è fatto intendere anche su Zoom.
Forse stiamo vivendo il nostro spillover: c’era il Teatro, ora c’è il Teatro-al-tempo-del-Covid, poi ci sarà il Teatro ma non sarà esattamente la stessa cosa. Davamo per scontato di poterci abbracciare e prima o poi torneremo a darlo per scontato: nel frattempo avremo fatto un teatro capace di ricordarci la meraviglia del primo abbraccio post-pandemia? Pensare su scala globale suonava astratto mentre adesso bene o male ci sentiamo connessi a ogni terrestre esposto al virus: in questi mesi riusciremo a radicare i nostri discorsi fuori dal ristretto ecosistema teatrale in cui operiamo? Il nostro salto di specie è necessariamente anche un salto di immaginario.
E il salto è per definizione incontrollato: qualcuno discuterà con le istituzioni su normative e risorse, qualcuno ascolterà i programmatori e le richieste dei territori, qualcuno farà teatro dal vivo per come sarà possibile farlo, qualcuno userà estratti di repertorio fra monologhi, soli e scene a-prova-di-Covid, qualcuno lavorerà con cuffie e visori VR, qualcuno metterà in scena il distanziamento sociale, qualcuno agirà online in conflitto col medium e la sua lack-of-liveness, qualcuno aprirà la ricerca mostrando al pubblico come si passa una settimana di prove su un’unica scena senza venirne a capo, qualcuno non produrrà assolutamente nulla ma magari andrà a vedere tutto, qualcuno studierà come un forsennato per fornire strumenti teorici a cavallo fra performing-arts e cittadinanza, qualcuno documenterà tutto per una futura archeologia teatrale, qualcuno smetterà di fare teatro, qualcuno infine cercherà altri artisti di cui sente vicino il linguaggio e insieme si domanderanno come fare a impattare su un pubblico e un immaginario allargati, più allargati di com’è stato fino ad adesso: che tutto continui così è la catastrofe.
Quando l’ambiente muta, l’evoluzione sperimenta: i rapporti di forza fra le specie cambiano, animali piccoli e marginali si diversificano e prosperano perché improvvisamente diventano i più adatti a replicare pacchetti di informazioni di generazione in generazione… forse oggi lavorare in teatro significa usare una finestra evolutiva per cambiare la catena alimentare presente, coi rischi che questo comporta e coi dubbi, i conflitti, l’indeterminatezza. Per questo nelle interviste noi diremo spesso “non lo sappiamo” e scriveremo un intervento per Pan UBU senza nascondere il sentimento d’inadeguatezza che proviamo nel farlo.
E comunque, nonostante tutto, progetteremo e calendarizzeremo lo spettacolo che volevamo fare prima della pandemia: perché non vogliamo uscire dalla crisi con qualcosa in meno di quello che avevamo, al contrario vorremmo uscirne sapendo che tutti si sono mossi in così tante direzioni fuori programma che alla fine avremo sviluppato pensieri e pratiche collettive utili anche per il dopo-pandemia. Significherebbe aver usato la fragilità di questo tempo come propellente per una trasformazione, di cui però conosceremo i connotati solo a posteriori, attraverso il lavoro e lo scorrere del tempo.

Sulla mia panca, sulla mia poltroncina rossa ci sto benissimo. Faccio lo spettatore con l’impudicizia di rendere pubblico il mio giudizio su quanto accade là, sul palcoscenico, davanti a me e alla comunità di noi che veniamo in teatro affamati di visioni.
Mi manca la possibilità di perdermi via nella voce, nella presenza dell’attore.
Mi manca il concentrare lo sguardo per non perdere il respiro, oppure distendere il volto quasi a voler dire a chi sta in scena: «Sì, mi fido di te, ti seguo».
Mi manca anche il nervoso muoversi delle gambe e l’insofferenza quando ciò che accade è insopportabile, perfino mi manca la testa che penzola per la stanchezza e il sonno che ha la meglio sullo spettacolo. Chi non si è mai addormentato a teatro, alzi la mano.
Da spettatore mi manca il respiro dell’attore, all’attore credo manchi quello del pubblico. Semplicemente manca il teatro, spazio in cui si partecipa alla poesia che si fa corpo, relazione, contatto emotivo, sudore, respiro, gesto, lacrime, fatica, gioia e dolore. Questa è la condizione del teatro, questa è la condizione della vita.
Mi manca tutto questo e l’ho cercato, in questi giorni, in queste settimane di lockdown, nei tanti, tantissimi spettacoli in video, nelle telefonate teatrali, nelle letture di attori e attrici che dal salotto di casa spaziavano da Moby Dick ad Amleto, dai Promessi Sposi all’ultimo best seller in libreria, complice kindle. Ho cercato il calore del corpo, l’emozione dello stare lì a respirare lo stesso respiro. Ma allo stordimento momentaneo e all’illusione di ricevere la mia dose di teatro quotidiano hanno fatto seguito il disamore, il distanziamento non solo sociale ma estetico, hanno preso il sopravvento la solitudine, lo schermo del computer, la parete gialla della sala, l’assenza della comunità di spettatori a cui appartengo.
E allora il pensare al dopo che potrebbe essere il dopodomani è stato un tutt’uno. Immaginarsi un teatro con distanziamento sociale sembra una contraddizione in termini. Il teatro è sociale per sua stessa natura, lo è nell’essere platea – ovvero piazza – lo è nell’essere spazio in cui si vede e si è visti, lo è nel suo essere azione e parola fattuale e che agisce, lo è nel compiersi in un qui e ora. I media hanno reso possibile la contemporaneità del dire e del vedersi, ma nel hic et nunc c’è quel hic che chiede e pretende fisicità, umori, abbracci, anche nella formula simbolica dell’applauso.
Per questo il teatro non può sopportare il distanziamento sociale, può magari concedersi il dialogo solipsistico fra attore e gruppo sparuto di spettatori, ma alla fine anche qui qualcosa rischia di non tornare. Il teatro è coro, coralità e allora la selezione distanziata degli sguardi e dei corpi rischia di mettere in ombra l’essere assemblea, diciamolo ecclesia del teatro, luogo sacro nell’immanenza del suo compiersi, sempre e comunque in uno spazio separato ma che ci appartiene, appartiene al cittadino, allo spettatore che è il cittadino della città/teatro che sente il bisogno e l’urgenza di riaprire le porte.
In tutto questo l’estate – senza dubbio – regalerà scampoli di teatro, occasioni di incontro, performance in sicurezza, con o senza mascherina dipenderà dal legislatore e dal virus, o viceversa? Ma quando il teatro tornerà ad essere teatro? Ma lo era prima del Covid-19? Lo sarà dopo e, se sarà, in che maniera ciò accadrà? Le risposte non le so, le ipotesi sono tante. So solo che da cronista della realtà, dal punto di vista di una delle città più martoriate dall’epidemia, Cremona, il ricominciare è lo squillo di trombe dell’incipit dell’Orfeo di Monteverdi, un viaggio oltremondano che ci costringe a lasciare il vecchio e ci impone un qui e ora in attesa di un altro tempo, un altro spazio senza Euridice tutto da inventare. Come in ogni crisi, ancor prima che si apra il sipario, è questo che ci attende, è questa la condizione di tutti noi spettatori/attori in questo tempo sospeso, presente gravido di dolore e che vorrebbe essere fecondo di vita, ma rinnovata per favore!